domenica 17 gennaio 2016

Ventidue (9)

Mi sveglio da un sonno profondo e senza sogni, stanca come se non fossi mai andata a dormire. La sera precedente è un ricordo vago, ancora avvolto nelle nebbie dell’incoscienza, fin quando non mi alzo e mi dirigo in bagno.
Realizzare che quello che mi fissando a bocca aperta è il mio riflesso nello specchio, è uno shock: non sono io, penso, non posso esserlo. Non con quelle labbra gonfie e quel livido sullo zigomo!
Rimango un attimo attonita, poi faccio un respiro profondo e prendo il flacone del fondotinta.

La giornata trascorre abbastanza pigramente, come una qualsiasi giornata di fine anno scolastico per una che non ha paura della bocciatura. Compagni e professori si soffermano per un momento con lo sguardo sul mio volto ma, un po' per sano disinteresse e un po' perché Santa Shiseido è con me e nasconde il peggio alla vista, passano oltre senza fare domande. Tempo un'ora e non mi ricordo nemmeno più di avere dei segni.

Tornando a casa, vengo improvvisamente assalita dall'ansia. I battiti accelerano, il respiro si fa affannoso, comincia a girarmi la testa. Che succede?

Cerco di tranquillizzarmi e, concentrandomi sul ritmo di inspirazione ed espirazione, riporto il panico al di sotto dei livelli di guardia.
Mangio da sola davanti alla televisione, come al solito, poi entro in camera e do un occhiata all'agenda. Non ho niente di urgente, per domani, ed anche se ce l'avessi non sarebbe così urgente. Decido di passare il tempo leggendo il manga che ho comprato ieri, tornando da scuola, ma ho lasciato a metà per andare al lavoro.

Buffo come sia stato solo ieri, eppure mi sembrino trascorsi interi secoli da allora; a dirla tutta, mi sembra di non essere nemmeno più la stessa persona che ha acquistato questo volumetto che tengo in mano.
Mi sento distaccata da tutto, esule in un mondo che non mi appartiene, sebbene sia circondata dalle cose che chiamo mie.
È una sensazione strana, come un fluttuare morbido al di sopra delle miserie umane. Non cessa nemmeno quando, con un'occhiata all'orologio, noto che è ormai ora di alzarsi dal letto su cui mi ero sdraiata per leggere e sono invece rimasta a fissare la copertina del fumetto.
Mi vesto canticchiando, cosa insolita per me che voglio sempre, disperatamente, apparire al meglio. Anziché tirare fuori mezzo armadio e spulciare alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire meno goffa, meno brutta, meno me, vado dritta a prendere una blusa e un gonna svasata e le indosso. Abbino un sandalo con la zeppa non altissima e vado in bagno a truccarmi, gettando uno sguardo allo specchio del corridoio mentre passo. Non posso fare a meno di sorridere per il risultato, mi piaccio.
Esco di casa e mi tuffo nel sole pomeridiano, con l’animo più leggero che mai. Quando ho deciso che avrei accettato il bizzarro invito di Alessandro? In realtà, non è stata una vera e propria decisione. Lo sento ineluttabile, scritto, come se nemmeno si possa immaginare un universo in cui io non vado da lui. Non è una cosa giusta, né tantomeno una cosa sbagliata… semplicemente, è.
Qualsiasi dubbio, qualsiasi interrogativo che mi porrei in un altro momento, adesso non mi sfiora neanche. Sono in un vero e proprio stato di grazia.
Arrivata davanti all'ingresso posteriore della casa di Edo e Alessandro, vedo quest’ultimo in piedi davanti al cancello chiuso e mi avvicino. Mi sta aspettando? Ha gli avambracci appoggiati sul ferro battuto; assomiglia più ad un disperato in carcere che al ricco figlio di due medici ma è stato gentile, ad attendermi addirittura in giardino. Ci guardiamo negli occhi senza parlare finché non sono proprio di fronte all’ingresso, poi lui apre il cancello e si sposta per farmi passare avanti. Mentre cammino davanti a lui, sento uno sguardo di ghiaccio piantato sulla nuca. Gentile, come no.
Una volta entrati nella casa, rimango incerta su che direzione prendere, quindi rallento visibilmente l’andatura. Da quel punto in avanti, mi guida lui, sempre senza parlare. Basta la semplice pressione della punta delle sue dita sulla schiena, a metà tra la carezza e la spinta, a guidarmi nel dedalo di corridoi e sale di quell'enorme villa.
Saliamo insieme quella che mi sembra un’infinità di scale e arriviamo alla mansarda. Ho una battuta d’arresto quando vedo la porta in cima all'ultima rampa. Il pesante chiavistello metallico, il legno massiccio lasciato volutamente grezzo, urlano “serial killer” lontano un miglio; le mie gambe si bloccano per un momento, rifiutandosi di continuare.
La pressione sulle vertebre si trasforma in una vera e propria spinta, Alessandro somma alla mano destra sulla mia schiena la forza dell’altra sul fianco e mi obbliga a salire gradino dopo gradino.
Una volta in cima spalanca la porta e con un ultimo spintone mi butta dentro la stanza, richiudendosi poi l’uscio alle spalle dopo essere entrato. Mentre lui chiude a chiave, io mi guardo intorno osservando il mobilio. Mi aspettavo qualcosa tipo catene appese alle pareti e strumenti di tortura sparsi in giro, ma non c’è niente di tutto ciò. L’unica cosa classificabile come vagamente inquietante è il grosso orologio digitale appeso alla parete, il resto è praticamente uguale alla stanza da letto di Edoardo. Mi do della stupida, mi rilasso e mi ricompongo.
Quando mi volto di nuovo verso Alessandro, lui mi sta ancora fissando, come non ha mai smesso di fare da quando sono arrivata.
- Delusa? - mi chiede.
- Un po’ - Rispondo io, distogliendo lo sguardo con una risatina di imbarazzo. Ed è vero. Pur essendo sollevata perché non c’è alcun pericolo, sono al tempo stesso delusa dal fatto che non ci sia pericolo. Perché, se Alessandro non è un oscuro predatore a cui le ragazzette indifese come me non possono resistere, allora è solo il fratello del mio fidanzato ed io sto solo facendo la zoccola.
La tremenda verità di questa affermazione mi assale e comincio a chiedermi che ci faccio qui, perché ho accettato di venire e come faccio a trarmi da questo impaccio, considerando che la porta è chiusa a chiave e che chi l’ha chiusa si sta avvicinando a me con fare per nulla rassicurante e mi sta prendendo di nuovo il viso tra le mani per fissarmi negli occhi. La risata di poco prima mi muore in gola.
- Cominciamo a mettere le cose in chiaro, bellezza. Quando sei in mia presenza, non voglio sentire battutine, non voglio sentire risatine di scherno, non voglio nessuna ironia o sarcasmo.
E soprattutto, ogni tua frase diretta a me deve concludersi con “Padrone”. Perché se non esci subito da quella porta è questo che vuoi che io diventi, il tuo padrone, e ogni violazione delle mie regole comporterà una punizione. Sono stato chiaro? -
Le sue mani sono ancora sul mio viso e, per andarmene, dovrei scostarle e dirigermi verso la porta. Ma, se devo essere onesta con me stessa, non sono certa di volerlo fare. Sono io la prima ad essere stupefatta, il mio orgoglio grida - “Le punizioni gliele dai a tua sorella, padrone di ‘sto cazzo!!” - eppure Alessandro ha messo le carte in tavola, e a me piacciono le persone dirette. A conti fatti, non è il primo che voglia controllarmi, impedirmi di fare questo o quello, non credo nemmeno che sarà l’ultimo; però, almeno lui non ne fa mistero e non agisce in maniera subdola: ha dettato subito le sue condizioni, se ne infischia del fatto che io potrei ritenerlo uno psicopatico, uscire di qui e raccontare tutto al fratello. Mettiamoci anche che è bello, sicuro di sé e il mio corpo reagisce alla sua presenza come una falena reagisce ad una candela accesa, per carità. Alla fine, però, se dovessi dire cosa mi affascina di questo ragazzo, sarebbe il metodo che colgo in questa follia.
Riluttante, mi sciolgo dalla stretta e mi muovo comunque verso la porta, allungando la mano verso il chiavistello.
È comunque uno che mi ha morsa, picchiata e spogliata la prima volta che ci siamo incontrati. Un tipo a dir poco inquietante dal quale non credo che ci si possa aspettare nulla di buono. Il mio fidanzato, invece, è un bravo ragazzo che non si merita che io gli faccia una cosa del genere. Mi ama e non farebbe mai niente che mi possa fare del male.
Eppure non mi decido a far scattare la serratura. Non so bene cosa mi trattenga: a rigor di logica, la mia decisione è la migliore che si possa prendere.
- Ascolta, sto insieme a tuo fratello, non è proprio il caso che questa cosa continui… Dimentichiamocene, ok? Ognuno torna alla propria vita e continua come se non fosse successo niente… -
Mentre lui copre la distanza tra noi a grandi passi e mi afferra per lo scollo della blusa, mi chiedo quanto del mio discorso sia effettivamente arrivato al destinatario. Ed al contempo sono compiaciuta dal fatto che sì, alla fine l’oscuro predatore è arrivato.

domenica 10 gennaio 2016

Ventidue (8)


Mi sveglio da un sonno profondo e senza sogni, stanca come se non fossi mai andata a dormire. La sera precedente è un ricordo vago, ancora avvolto nelle nebbie di Morfeo, fin quando non mi alzo e mi dirigo in bagno.

Capire che questo è il mio riflesso nello specchio è uno shock: non sono io, penso, non posso esserlo. Non con quelle labbra gonfie e quel livido sullo zigomo!
Rimango attonita per un momento, poi faccio un respiro profondo e prendo il flacone del fondotinta.

La giornata trascorre abbastanza pigramente, come una qualsiasi giornata di fine anno scolastico per una che non ha paura della bocciatura. Compagni e professori si soffermano per un momento con lo sguardo sul mio volto ma, un po' per sano disinteresse e un po' perché Santa Shiseido è con me e nasconde il peggio alla vista, passano oltre senza fare domande. Tempo un'ora e non mi ricordo nemmeno più di avere dei segni.

Tornando a casa, sono improvvisamente assalita dall'ansia. I battiti accelerano, il respiro si fa affannoso, comincia a girarmi la testa. Che succede?

Cerco di tranquillizzarmi e, concentrandomi sul qui e ora, riporto il panico sotto i livelli di guardia.
Mangio da sola davanti alla televisione, come al solito, poi entro in camera e do un’occhiata all'agenda. Non ho niente di urgente, per domani, e anche se l’avessi, non sarebbe così importante. Decido di passare il tempo leggendo il manga che ho comprato ieri, ma ho lasciato a metà per andare al lavoro.

Buffo come sia stato solo ieri, eppure mi sembrino trascorsi interi secoli da allora; a dirla tutta, mi sembra di non essere nemmeno più la stessa persona che ha acquistato questo volumetto che tengo in mano.

Mi sento distaccata da tutto, esule in un mondo che non mi appartiene, sebbene sia circondata dalle cose che chiamo mie.

È una sensazione strana, come un fluttuare morbido al di sopra delle miserie umane. Non cessa nemmeno quando, con un'occhiata all'orologio, noto che è ormai ora di alzarsi dal letto su cui mi ero sdraiata per leggere e sono invece rimasta a fissare una copertina.

Mi vesto canticchiando, cosa insolita per me che voglio sempre, disperatamente, apparire al meglio. Anziché tirare fuori mezzo armadio e spulciare alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire meno goffa, vado dritta a prendere una blusa e una gonna svasata e li indosso. Abbino un sandalo con la zeppa non altissima e vado in bagno a truccarmi, gettando uno sguardo allo specchio del corridoio mentre passo. Non posso fare a meno di sorridere per il risultato, mi piaccio.

Esco di casa e mi tuffo nel sole pomeridiano, con l’animo più leggero che mai. Quando ho deciso che avrei accettato il bizzarro invito di Alessandro? In realtà, non è stata una vera è propria decisione. Lo sento ineluttabile, scritto, come se nemmeno si possa immaginare un universo parallelo in cui io non vado da lui. Non è una cosa giusta, né tantomeno una cosa sbagliata… semplicemente, è.

giovedì 29 maggio 2014

Ventidue (7)

- Edoardo non è qui - risponde lui con quella voce suadente e letale, catturando il mio sguardo con i suoi occhi rapaci. 
- Ma tu sì. -
- Già - faccio io, consapevole di riuscire stupida nel dirlo - Però, visto che ero passata per lui... -
Lui si sta avvicinando a me a lunghi passi lenti, ed io di riflesso indietreggio.
- ...a questo punto io... -
Ancora lui avanza, e ancora io arretro per mantenere il distacco.
- ...credo sia meglio...-
Un altro passo. Continuiamo a fissarci.
- ...andare. -
Arrivata alla fine del salottino, non potrei indietreggiare ancora neanche volendo. Premo la schiena contro il muro nel disperato tentativo di mettere più centimetri possibile tra me e lui, ma continuo a tenere gli occhi in quelli di lui, che mi fissa gelido.
- Tu non vuoi andare da nessuna parte, vero? - Trasalisco, e ciò gli basta come risposta. Si china su di me ed io, istintivamente, alzo il mento per andargli incontro. Attraverso le ciglia vedo le sue labbra schiudersi ed avvicinarsi sempre più alla mia bocca, sento la sua mano passarmi dietro la nuca e tenermi la testa, quindi protendo le labbra, pronta per un bacio appassionato. Il dolore mi colpisce come una scarica elettrica, facendomi sgranare gli occhi e riscuotere dal torpore.
-Ahi!- con le mani faccio leva sul suo torace e lo allontano da me. Lui ha ancora i denti serrati sul mio labbro inferiore e lo tira leggermente prima di lasciarlo andare.
Un morso. Questo stronzo bastardo mi ha morso. E forte!
Lo guardo, un sorriso gli attraversa il viso come un fulmine e con altrettanta velocità la mano, che prima mi bloccava la nuca, carica all'indietro e si abbatte su di me. A questo punto io, appoggiata con la spalla e la tempia alla parete dove sono andata a sbattere per il contraccolpo, sono a dir poco scioccata. Mi porto la mano al viso, sento la bocca spalancarsi per il bruciore e la sorpresa. Il dolore alla guancia e quello al labbro hanno fatto sparire ogni traccia del languore che mi aveva presa e portata ad avvicinarmi. Eppure, stranamente, non voglio restituire pan per focaccia. La mia indole combattiva, che più volte mi ha gettata in mezzo alle peggiori risse, adesso tace.
Mi volto a guardarlo di nuovo dritto negli occhi, senza parlare. Lui ha ancora quel sorriso, compiaciuto e sicuro di sé, le mani sui fianchi e l’espressione saputa, di chi si aspetta una crisi isterica e si prepara a rispondere con una presa in giro. Mentre ci fissiamo per lunghi istanti, il sorriso mi sembra spegnersi nei suoi occhi, per poi tornare a brillare, ancora più ampio di prima. Alza il braccio e afferra il collo della mia camicetta, afferrando il primo bottone.
Sbatto le palpebre, sento i muscoli irrigidirsi involontariamente, deglutisco, ma non mi muovo. Imperterrita, continuo a fissarlo mentre lui si trasforma in maniera quasi palpabile sotto i miei occhi: perde tutta l’allure di scherzo, smette di cercare di spaventarmi affinché io scappi come una bambina imbronciata. Le sue pupille si dilatano, gli angoli della bocca si sollevano ancora, storcendo il suo sorriso in un ghigno, le dita tremano impercettibilmente per la sferzata di adrenalina mentre allarga l’asola, per far passare il bottone.
Non l’ha ancora aperto e già realizzo quello che vuole fare, rendendomi vergognosamente conto che ho le mutandine completamente bagnate al solo pensiero. Voglio dire, ho davanti il fratello stronzo del mio fidanzato, questo mi tratta a morsi e schiaffi, poi dà a vedere che mi spoglierà e mi metterà le mani addosso e io che faccio? Non solo me ne sto zitta e ferma, vedo pure di facilitargli il lavoro. Sai mai che non riuscisse a scoparmi per bene, se fossi troppo asciutta.

Quale lurida cagna in calore si comporterebbe così? E se entrasse Edo? Oddio, se mi vedesse mentre mi faccio spogliare dal fratello… Dipingendo mentalmente la scena, ho una contrazione involontaria e gli umori oltrepassano la barriera delle mutandine ormai fradice, bagnandomi l’interno delle cosce.
Mi sottraggo alla fantasia e torno a concentrarmi sulla realtà. Alessandro mi ha ormai sbottonato completamente la camicetta, mettendo in mostra il reggiseno bianco sottostante, e mi mette le mani sui fianchi alla ricerca della cerniera della gonna. La trova e la apre completamente, abbassandomi la gonna e facendola scivolare a terra. Io comincio ad ansimare leggermente, per il contatto dell’aria fresca sulla pelle calda e nuda.
La sua espressione ha perso ogni traccia di allegria, è severa – distaccata, ad essere sincera – come se stesse eseguendo un compito imposto dall’alto. Mi guarda, mi ha guardata negli occhi tutto il tempo, ma più passa il tempo più mi sento una paziente davanti ad un medico, o un quarto di bue davanti ad un macellaio. La gonna viene raggiunta a terra dalla camicetta, che mi tira giù dalle spalle accompagnandola, per evitare che si incastri il polsino.
Per finire, porta un braccio dietro la mia schiena. Con un unico gesto fluido mi slaccia il reggiseno, facendo cadere anch’esso a terra nel mucchio di vestiti, e mi leva le mutandine afferrandole ai lati. Ormai sono nuda davanti ai suoi occhi, fatta eccezione per le decolleté mezzo tacco. Deglutisco rumorosamente, la respirazione accelerata, fissandolo mentre resto in attesa della sua prossima mossa. Per cingermi la schiena e togliermi il reggiseno, si è avvicinato abbastanza da permettermi di percepire il calore del suo corpo ed io sto letteralmente anelando di potermi appoggiare a lui. Se non altro, per avere una scusa per distogliere lo sguardo dal suo senza apparire debole.
E invece, lui fa un passo indietro. E mentre lo fa, torna il suo ghigno provocante che mi fa partire un brivido lungo la schiena.
Che diavolo gli prende adesso? Perché non mi salta addosso? Non mi vuole? Non gli piaccio? Il mio cervello è un assordante cicaleccio di interrogativi e di ingranaggi che girano vorticosamente. 

Su tutto quel baccano prevale però una vocina sottile, decisa. Non aprire bocca, sussurra.
Non aprire bocca e non interrompere il contatto visivo, o sarai persa per sempre.
Di solito sono cervellotica, penso troppo, parlo troppo. Ma quando l’istinto si fa sentire in maniera così netta, mi abbandono ad esso. E così stiamo lì, occhi negli occhi in un silenzio carico di sfida. 

Però potrei dire qualcosa. Dico qualcosa?
No, forse è meglio di no.
Però lui sì, potrebbe anche dire qualcosa.


E miracolosamente, alla fine, è davvero lui a parlare per primo, anche se quel che dice è forse più sorprendente di quanto ha fatto finora.
- Domani, davanti all’ingresso posteriore. Alle otto. –
Detto questo, si rabbuia in volto ed esce dalla stanza, richiudendo dietro di sé la porta nera.
Quanto sento lo scatto della serratura, le mie ginocchia cedono e mi accascio a terra.

Resto lì,ansimando bocconi come un naufrago sulla rena. I polmoni ormai mi bruciano per tutto il tempo che ho passato allacciata agli occhi di lui, dimentica persino di respirare.
Una volta recuperato un normale battito cardiaco, mi rendo conto di essere ancora nuda e allungo un braccio per riprendere i vestiti. Mi sento come se avessi mille anni, o avessi appena scalato l’Everest senza piccozza. O entrambi.
Il cicaleccio nella mia testa è ormai cessato, sostituito da un silenzio vacuo ed irreale. Mi concentro sul qui ed ora, sui gesti che sto compiendo per riuscire, finalmente, ad allontanarmi da questo posto maledetto: allaccia la camicia, infila le mutandine, prendi la borsa.
Accertatami di aver preso tutto, mi dirigo verso l’uscita percorrendo a ritroso l’ingresso, ora completamente deserto. Esco dal portone principale col mio passo più svelto, senza guardarmi indietro, e faccio ritorno a casa senza aver ancora avuto il coraggio di analizzare l’accaduto.
Mi sdraio, completamente sveglia e completamente vestita, sul mio letto singolo perennemente sfatto. E solo allora, al sicuro nella mia stanza, torna il vociare concitato dei miei pensieri. Che diavolo è successo là dentro? Edoardo dov’era?

Riapro gli occhi e fisso il buio davanti a me poi, con uno scatto, mi metto a sedere sul letto. Il mio telefono. Il mio telefono non ha squillato tutta la sera, ed io me ne rendo conto solo ora perché ero troppo presa dalle mie seghe mentali, per farci caso.
Scendo dal letto e mi metto a frugare nervosamente la borsa alla ricerca del cellulare, finché non lo individuo in un angolo tra la bustina dei trucchi e l’agenda. Guardo il display. Morto.
Inciampando nel disordine della stanza mi avvicino al comodino per prendere il caricabatterie, collego il telefono alla presa e lo accendo. Tempo di trovare la rete e mi arriva un messaggio:

Hi sweetie, xk nn risp? Cmq bad news :(
Stase doma e dopo vd in montagna
col vecchio, cive qnd torno!
Peccato T.T tat :*

Oltre a questo,  quattro o cinque messaggi della Vodafone che mi notificano chiamate a cui non ho mai risposto. Ops.
Mi ributto sul letto mentre le tessere del puzzle si ricompongono davanti ai miei occhi. Il padre di Edoardo aveva trasmesso al figlio l’amore per la natura, i boschi e i capanni di caccia stile “omaccione rude e virile”. Nonostante la madre disapprovasse, manifestando il suo disappunto con permanenze alla SPA lunghe quanto le loro in montagna, ogni occasione era buona perché sparissero dei giorni per tornare poi sudati, sporchi e carichi di lepri e fagiani.
Certo che, se la prospettiva di avermi nuda nel suo letto non riesce a battere quella di dormire in una baracca umida, non devo poi essere ‘sta gran gnocca di fidanzata, afferma la mia vanità ferita. Taci va, che è meglio così, le rispondo. Il problema è un altro.
Il vero problema è che domani non ci sarà nessuno in quella casa, tranne l’inquietante fratello maggiore del mio attuale ragazzo. Anzi: l’inquietante, violento, bastardo e super-sexy fratello maggiore del mio attuale ragazzo. E un maggiordomo connivente, a quanto pare.
Finalmente la stanchezza e la tensione della giornata hanno la meglio su di me e, sul cammino verso l’abbraccio di Morfeo, realizzo con un sorriso che almeno una cosa l’ho capita.

Devo lasciare Edo. Non esiste che mi molli qui per andarsene a sparare ai cinghiali.




martedì 20 maggio 2014

Ventidue (6)

Suono il campanello della principesca casa sul mare dove abita il mio fidanzato.
Mai avuti problemi di soldi, Edoardo. I suoi sono medici, lui è un promettente studente allo scientifico e nel suo destino è segnata un'altrettanto promettente carriera al Policlinico Universitario.
Cosa ci faccia con una povera spiantata come me, è ancora un mistero. Il fascino del diverso, forse, per uno che ha sempre frequentato la società "bene" e ha come amici i figli di notai, avvocati e dottori che abitano in ville algide e perfette, in tutto simili a quella che mi trovo di fronte, quasi fossero fatte con lo stampino. Niente a che vedere con il folklore ruspante dei quartieri popolari dove sto io, con i panni stesi come macchie di colore sui balconi e la vecchia pazza del quartiere che urla il suo sdegno verso l'attuale gioventù bruciata. Qui, i pazzi, li allontanano con discrezione per poi eliminarli a randellate.
I soldi vanno dove trovano sicurezza, ecco perché da me non vengono mai, penso con un brivido.

Il portone dinnanzi a me si schiude e il maggiordomo - il maggiordomo, capite? - mi lancia un'occhiata.
- Buonasera - esordisco timidamente.
Dannazione, Edo sapeva perfettamente che sarei venuta e a che ora sarei arrivata, perché non mi ha aspettata di sotto com'è suo solito? Avere a che fare con la servitù mi mette a disagio, visto che di solito sono io la servitù.
E adesso questo mi guarda e non parla, e ce l'avrà con me perché l'ho tirato giù dal letto ad un orario impossibile.

Resisto alla tentazione di abbassare lo sguardo per passare in rassegna i miei vestiti - ho ancora addosso la divisa del Blue Star, l'avrò mica sporcata pulendo la cucina? - e balbetto qualche altra frase sconnessa che, teoricamente, dovrebbe spiegare la mia presenza in quella casa a quell'ora con nessun altro tranne il mio fidanzato ad aspettarmi.
Non arrossire, mi ripeto, non arrossire. Arrossisco, anzi, avvampo, e il maledetto maggiordomo continua a guardarmi senza dire niente.

Prima che abbia terminato la mia spiegazione sui motivi che mi portano lì, comprendenti tra l'altro un rapimento alieno, una gomma bucata e un cane mangiatore di compiti, il maggiordomo (di cui, a questo punto, annoto mentalmente di chiedere il nome) si volta dandomi le spalle e con un secco: - Prego. - si dirige verso la porta, lilla, al centro dell'ingresso arredato in crema e lilla. La tiene aperta mentre la oltrepasso, ma non entra con me nella stanza successiva. Semplicemente, se ne va senza un'altra parola, richiudendo la porta alle mie spalle e lasciandomi sola nella stanza ad attendere.
In quest'altra stanza, non ero mai stata prima. Di solito, Edo mi fa entrare dall'ingresso laterale, e le rare volte che entro dal portone principale mi fa salire dalla scala sulla sinistra dell'ingresso, direttamente in camera sua. Mi piace questo salottino, però.
C'è un contrasto quasi stridente tra lo stile minimal, bianco e nero, imposto alle pareti, al pavimento e alle piccole suppellettili e l' opulenza dello stile barocco concesso al mobilio principale. Mi accomodo su una poltroncina bordata d'oro e, per passare il tempo, stempero con il freddo delle mani le mie guance bollenti e continuo ad osservare la stanza che mi affascina sempre di più con i suoi richiami cromatici.
Quattro porte, una al centro di ogni lato. Due, quella dalla quale sono entrata io e la sua gemella di fronte, sono dipinte della stessa tonalità oro richiamata dalle bordature del divanetto e delle poltroncine. Una è profilata di bianco, l'altra di nero. Le altre due porte invece, anch'esse una perfettamente di fronte all'altra, sono una bianca e una nera, con gli stessi profili d'oro. Questo smorza il contrasto delle forme, rendendo interessante per l'occhio quel che altrimenti sarebbe stato... noioso... molto noioso... e poi questa poltroncina è così comoda...

- Bene, bene, bene. Guarda un po' chi è venuto a trovarci -

Mi riscuoto dal torpore, devo essermi appisolata un attimo per la stanchezza della giornata. Sbadiglio, credendo di aver sognato la voce maschile che sembrava provenire dal fondo della mia coscienza.
Il rumore di una delle porte che si chiude mi fa drizzare i peli dietro la nuca: non ero sola nella stanza. Raggelo, non posso farne a meno, anche se sono consapevole di essere nella casa perfetta del mio perfetto fidanzato Edoardo, il luogo perfetto dove a nessuno può venir fatto alcun male.
Ma allora perché quella voce aveva un che di suadente e molto pericoloso allo stesso tempo?
Mi volto, il cuore che batte, l'adrenalina che scorre, come fossi una preda che si volta ad incontrare gli occhi del cacciatore. 
Appoggiato alla porta a fissarmi c'è un ragazzo alto, castano. Non è Edo, è meno alto e meno biondo, ma gli assomiglia tantissimo e non dev'essere molto più vecchio di lui - e di me.
Di sicuro è suo fratello Alessandro, penso. Mi ha parlato di un fratello maggiore, sui 25 anni. Il pensiero in sé mi tranquillizzerebbe, ma l'espressione rapace negli occhi di lui non fa altrettanto.
- Mi hai fatto spaventare - gli dico, ridacchiando - devo essermi addormentata mentre aspettavo Edo. Tu sei Alessandro, vero?
Edo dov'è? -

No, non sono per niente tranquilla. Anzi, ho i sensi all'erta come prima di un decollo. Mi alzo dalla poltroncina e realizzo che mi sto preparando alla fuga.

Perché sai, il BDSM è una questione di cervello

[20/05/2014 00.36.08] *****: Ti piace farti sottomettere

[20/05/2014 00.41.17] L'Hédoniste: Beh, non nego di provare un certo gusto per il dolore, ma mi manca la testa per fare la schiava. Mi rifiuto di perdere il controllo della situazione in favore di chicchessia. Poi, se si vuol giocare a legare le mani e bendare gli occhi, ci posso pure stare… ma sarebbe un patteggiamento e una vera slave non patteggia, si sottomette di buon grado.

[20/05/2014 00.42.01] *****: comunque sai di essere switch?

[20/05/2014 00.53.02] L'Hédoniste: lo dici come se fosse una malattia! Comunque, vale anche se ho finito per ribaltare il mio rapporto master/sottomessa e l'ho praticamente fatto diventare una dominazione dal basso?

[20/05/2014 00.53.59] *****: Cioè?


Vabbé.
BRAINADE! the Brain Grenade by Emilio Garcia
A dopo, con il seguito di Ventidue!

giovedì 15 maggio 2014

Ventidue (5)

Con la mia collega Romina, il rapporto è poco più profondo di quello tra due conoscenti. Non c'è nessuna particolare intesa o confidenza, quindi chiacchieriamo un po' del più e del meno spaziando su vari argomenti di nessuna importanza: vestiti, make-up, conoscenze comuni.
Romina è la classica ragazza che si potrebbe definire "pulita": più grande di me di qualche anno, fidanzata con lo stesso ragazzo da quando entrambi ne hanno memoria, la sua massima aspirazione nella vita è di sposarsi con lui e mettere su casa e famiglia.
Lei non è il tipo da toccarsi nel bagno pensando a degli sconosciuti (o peggio, a dei superiori) e saperlo mi fa sentire se possibile ancora più sporca. Il mio senso della morale, però, stranamente non rigira troppo il coltello nella piaga. Si limita a guardare Romina con tenerezza mista a pena e fare spallucce: sai che palle, vivere così?

Terminato di pulire e sistemare, saluto lei con due baci sulle guance, vado nello spogliatoio a prendere il cappotto e mi dirigo verso la cassa per salutare il capo.
Vengo pagata ogni volta a fine serata, quindi questa parte non la posso saltare, sebbene la voglia di infilare la porta senza una parola sia tanta.

Conosco Giacomo e non mi aspetto sconti da lui... in nessun senso.

Lui mi guarda da dietro la cassa aperta, poi fissa le banconote e sorride ancora con la sua faccetta sghemba.
- Questo è per il servizio in sala - dice, allungandomi venti euro.
La mia paga base è almeno il doppio, e mancherebbero comunque le mance, lui lo sa meglio di me. Vuole punirmi per quello che è successo decurtandomi la paga? Non faccio in tempo a chiedermelo, che lui parla ancora.
- Questo è per il servizio in cucina - aggiunge, porgendomi un'altra banconota da venti.
Chiude la cassa, io tiro un sospiro di sollievo e mi lascio andare ad un sorriso incerto. Ok, penso, mi ha tolto le mance. Ma almeno ha deciso di essere adulto e chiudere qui l'incidente senza togliermi altri preziosissimi soldi.
Capisco che mi sbaglio nel momento stesso in cui lo vedo tirare fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, trarne un'ultima banconota - da 50 euro, questa volta (!) - e infilarmela nello scollo della camicetta, bloccandola contro la spallina del reggiseno.
- E questo è per il servizio in bagno. - chiude, fissandomi negli occhi fino al momento in cui scende dal bancone, si volta e rientra in cucina senza un'altra parola.
Mi riscuoto dal gelo in cui mi ha lasciato l'ultima frase di Jack, metto via i soldi ed esco, immergendomi nella fresca notte primaverile.
Mi incammino verso la casa di Edoardo, a circa un chilometro e mezzo dal Blue Star, e lascio che la passeggiata mi calmi i nervi che sento tesi a fior di pelle.
Per quanto appena accaduto con Jack o per quanto sta per accadere con Edo? Non lo so e non mi fermo ad analizzare.
So solo che, giunta a destinazione, sono risoluta a lasciare che Edo faccia quel che vuol fare senza mostrare troppa partecipazione, così magari mi lascerà per una più focosa.
A quest'ultimo pensiero - io che vengo accusata di essere troppo frigida - mi sembra di sentire la risata del mio capo echeggiare nel buio.

martedì 13 maggio 2014

Ventidue (4)

Torno a fissarlo negli occhi per un interminabile momento, i modi da bambolina spariti. Non ti tradire, mi dico, magari sta scherzando, magari si riferisce a tutt'altra cosa.
Magari non sei stata veramente vista dal tuo capo mentre ti masturbavi nel bagno del tuo posto di lavoro, prima dell'arrivo dei clienti.

- Ti sono stato a guardare finché non sei venuta, la porta di quel bagno ogni tanto non chiude bene.. -

Ok, il tuo capo ti ha veramente vista mentre ti masturbavi nel bagno.

Cerco di fare mente locale su che scena possa essersi trovato davanti agli occhi, sbirciando dalla porta semichiusa, e sento la vergogna arrivare come una doccia bollente e gelata al tempo stesso.
Arrossisco, pensando alla gonna abbassata fino alle caviglie, in un mucchietto scomposto assieme alle mutandine, alla mia mano sotto la camicetta arancione della divisa, che torturava nervosamente un capezzolo.

Avvampo, al pensiero del piede che avevo appoggiato alla ceramica della tazza per poter tenere le cosce spalancate al massimo, al movimento frenetico delle dita sul mio sesso nudo, ai glutei contratti per la tensione.

Mi aveva sentita ansimare, gemere?

Sento la mandibola cedere e rimango lì immobile, a guardarlo a bocca aperta, rossa come un peperone.
Jack si riscuote dal turbamento che l'aveva preso pochi istanti prima, recupera il suo sorriso sghembo e si scosta di lato per passare, lasciandomi ancora impietrita a fissare lo scaffale al quale lui era appoggiato un momento prima.
Una volta che lui è dietro la mia schiena, sento la sua mano accarezzarmi i capelli e lo percepisco mentre si china portando la bocca al mio orecchio, per sussurrarmi:

- Se ti becco di nuovo a toccarti, spalanco la porta e vengo a leccarti quella bella figa che ti ritrovi, ci siamo
intesi... Piccolina? -

Senza aspettare la mia risposta, si raddrizza ed esce a grandi passi dalla cucina.

Io sono letteralmente scioccata e, mentre con gesti automatici faccio partire il programma della lavastoviglie e prendo altri piatti puliti da portare in sala, continuo a ripensare a quel che è successo con Giacomo. Avvampo e raggelo alternativamente, oscillando tra la vergogna di essermi fatta  scoprire e l'eccitazione di aver suscitato una reazione così inaspettata nel mio principale. Se lui ci provasse, mi dispiacerebbe? No, affatto. Mi perdo per qualche minuto nella fantasia di lui che mette in pratica la sua sensuale minaccia...
C'è un particolare, però, che mi viene in mente soltanto ora: io sto assieme ad un altro.

Povero Edo, dovrei essere persa nel pensiero di lui e della nostra prima volta insieme, dovrei crogiolarmi nell'emozione e nell'imbarazzo di passare la notte con il mio ragazzo. E invece eccomi qui ad immaginare la scena del mio capo che fa irruzione nel bagno in cui mi sto toccando e termina con la lingua quello che io ho iniziato con le dita. Proprio una fidanzata modello.


Rientro in sala, prendo le altre stoviglie sporche  da portare in cucina. Siamo quasi a fine turno, la clientela è notevolmente diminuita, quindi Romina è più che sufficiente per gestire le ordinazioni. Jack è al banco, versa gli alcolici e chiacchiera di calcio con uno dei clienti fissi.

Quando i nostri sguardi si incrociano, lui rimane impassibile ed io cerco di fare lo stesso. Facciamo finta che non sia accaduto niente e non ci parliamo per il resto della serata.
Finalmente, anche gli ultimi clienti se ne vanno. Romina si unisce a me nel rigovernare il locale cucina mentre Giacomo si occupa della sala.